Autore: Gaia Ruia
Pur seguendo da diverso tempo questa disciplina, oggi voglio chiedermi: Gaia, dopo tutti questi anni, cos’è, per te, l’Arte Marziale Interiore? In sintesi, mi rispondo: è la facoltà di osservare e penetrare se stessi con lucido e freddo distacco nella partecipazione più profonda e vissuta del campo emotivo più intenso che riusciamo a produrre.
Questo lucido abbandono, profondissimo, genera movimenti, danze interiori al di là dello spazio-tempo emozionali-razionali e al di là di una lucidità che vuole solo capire.
La lucidità e la razionalità, per me, non sono la stessa cosa: la lucidità è l’essere presenti senza pensare, è una forma di comprensione sentita, percepita, empatica e, quindi, non proiettiva, che può dare risposte più profonde di quelle che spesso mi affanno a cercare razionalmente, seguendo parametri spazio-temporali soggettivi, secondo un’ottica individuale che non tiene nel giusto conto l’altro e che, nella Danza che facciamo durante gli allenamenti di Arte Marziale Interiore, emerge sottoforma di movimento solo corporeo, non come conseguenza di uno stato coscienziale in quel momento raggiunto e danzato e che, quindi, non s’impasta col movimento dell’altro, ma diventa, spesso, scontro.
Ho notato che a volte si evita lo scontro prendendo le distanze dall’altro, ma questo crea un disagio ancora più forte, perché sono distanze costruite dal pensiero, riflesse, reattive, per l’incapacità, o per la paura di buttarsi nella mischia con gli altri, noi stessi, le nostre emozioni.
Quante volte dentro di noi danzano emozioni contrastanti: quelle irruenti, violente, potenti, e quelle più legate all’armonia, alla delicatezza, alla leggerezza; se si entra razionalmente in quella danza sono calci e scontri da tutte le parti, perché si vuole capire qual è il passo giusto da fare, in quale momento, ma l’emozione non lascia il tempo di pensare, quella emerge, si scatena, agisce, entra in circolo. Allora, per entrare in relazione profonda con essa non resta che abbandonarcisi, lucidi sì, attenti però alle minime sfumature, alla persona-emozione-campo istintivo emozionale che arriva da dietro, di lato, contemporaneamente, ma a quel livello di ascolto il corpo ne diventa diretta conseguenza e, quindi, non può non trovare il momento, lo spazio, la sincronia giusta.
A volte, invece, mi capita di guardare impotente quella danza che mi si scatena dentro, ma non entrare nel centro del cerchio, vuol dire rimanerne schiacciati dai pensieri, gli istinti le emozioni, anche se questo serve per prenderne coscienza. Il rimanere fermi, fissi, identificati nei contenuti emotivo-razionali può essere molto più rischioso che buttarsi nella mischia, perché sono rigidità, prese di posizioni che alla fine limitano il proprio raggio d’azione, e magari se ne esce con qualche livido in meno, ma con quel disagio molto più profondo.
Gaia lo conosce bene quel disagio che emerge dall’essere rigida: a volte il rimanere sulle proprie posizioni come risposta reattiva inconsapevole per l’incapacità, in quel momento, di comunicare profondamente con l’altro, dà l’illusione di essere forti, sicuri di sé nell’affermare con forza un’opinione differente, in realtà, è ristrettezza mentale che fa sentire soli e arrabbiati; ma la rabbia e la solitudine nascono, secondo me, in un’ultima osservazione, perché non si è trovata la strategia giusta per realizzare il punto d’incontro, di fusione con l’altro, o con la parte di noi che questo ci rappresenta. Invece, a volte si pensa di essere arrabbiati e incompresi perché non essere riusciti a convincere l’altro della propria opinione!
Dentro di noi è la stessa cosa: non esiste il giusto e lo sbagliato, l’emozione giusta o quella sbagliata, anche se io funziono per la stragrande maggioranza delle volte ancora così, ma l’emozione che stiamo producendo, che, trattata con arte marziale interiore, ci indica il percorso da seguire per la sua comprensione, quella empatica, non proiettiva, al di fuori del significato.
E poi perché provare paura di essere schiacciati da emozioni che noi stessi produciamo? E invece a volte mi sfugge ancora che l’emozione non mi arriva da qualche parte sconosciuta e pertanto ingovernabile, perché, anche se è un’emozione il cui nucleo originario rimane ancora a un livello inconsapevole, si manifesta in qualche modo, altrimenti non ci si accorgerebbe della sua esistenza e, se tutto si svolge dentro noi stessi, se abbiamo avuto la forza di produrla, perché non dovremmo essere in grado di governarla o di metterla in remissione?
Spesso accade che, quando ci sono contemporaneamente quattro, cinque persone al centro del cerchio, si aspetti lo spazio vuoto, l’assenza dell’altro per passare, e questo secondo me, è un altro meccanismo che merita attenzione: non deve non esserci l’altro per esserci noi, la nostra azione deve esserci indipendentemente dall’assenza o la presenza dell’altro, in realtà è proiettiva l’equazione secondo cui se l’altro non c’è, c’è più spazio per me. Questo è evidente nei rapporti affettivi triangolari, quando di solito si tenta di eliminare l’altro (simbolicamente, ma a volte anche fisicamente, i fatti di cronaca ce lo provano spesso!): la danza relazionale tra i tre può avvenire armonicamente solo se tutti accettano profondamente l’esistenza dell’altro e, per raggiungere questo, non si può non passare, attraverso il vissuto, dal prendere consapevolezza delle proprie facoltà, del proprio potere reale, allora l’Io non si sentirà più minacciato dalla presenta di un altro Io, perché sarà impegnato a danzare il proprio, trovando, perché no, unione profonda con l’altro. Non ci può essere reale unione, neanche in una coppia affiatatissima, se non si è in grado di saper danzare, trovare il punto d’incontro col terzo, perché noi stessi siamo un tre vivente (la Y: lo spermatozoo, il principio maschile, l’ovulo, il principio femminile, e l’unione di entrambi), quindi come facciamo ad essere complici, compagni dell’altro se non riconosciamo quest’unione profonda che ci costituisce strutturalmente, nel DNA? E poi perché il mondo non funziona a due, anche se, ovviamente, questo non significa non poter scegliere una persona con cui aprirsi di più e condividere degli spazi costruttivi.
Anche questo è marzialità: scegliere di mettere in discussione, spesso in modo durissimo e anche molto doloroso, il proprio narcisismo, il proprio egocentrismo, l’immagine che ci siamo costruiti di noi, le proprie insicurezze, per poi conquistarsi sul campo relazioni non proiettive, stavolta veramente salde, indistruttibili, con l’altro-noi stessi.
Un altro aspetto della marzialità, un altro principio attivo, è l’energia del superamento. I pensieri, le preoccupazioni, le emozioni ad essi collegati pesano, hanno un loro peso specifico che può somatizzarsi sottoforma di stanchezza, psichica e fisica, ma esiste uno spazio che io ho intuito, ho vissuto per attimi, in cui la stanchezza non esiste. Provo a spiegare con un’immagine questo processo che mi è capitato di vivere: l’insieme delle emozioni, delle preoccupazioni, dei pensieri, è come se fossero un mare mosso fragoroso (perché la tempesta dei pensieri produce un suo rumore): e, o ci si ritrova in balia, sballottati da tutte le onde, o ci si immerge, si scende sott’acqua, lì dove il rumore e l’agitazione si lasciano in superficie e si ritrova la calma, il silenzio profondo, la sospensione che non permette di scoraggiarsi, ma sostiene, fino a riportare in superficie quella dimensione.
Un altro sistema è, invece, non lasciare lo spazio, il tempo a quei pensieri-emozioni di manifestarsi nei loro contenuti, ma sfruttarne l’intensità per trasformarli in movimento, in azione, in opere. Durante gli allenamenti, o i seminari di Sigmasofia, mi è capitato spesso di avere delle tensioni emotive, che a volte mi avrebbero portato a rinunciare all’allenamento stesso, già m’immaginavo la scena: arrivata in palestra avrei preso la mia borsa, le mie cose, voltato le spalle e me ne sarei andata, a volte sbattendo la porta, a volte senza dire una parola (a seconda dell’immaginazione del momento), invece mi sono trovata alla fine sempre a scegliere di trasformarle in movimento, in un ascolto maggiore se c’era un’esposizione teorica, in un’attenzione maggiore al movimento in caso di pratica. Per esempio, mi aiuta molto in questi momenti in cui sono presa da altri pensieri-emozioni, concentrami, abbandonarmi all’imitazione dei movimenti che Nello ci propone. Poiché sono spesso movimenti che richiedono un controllo contemporaneo di diverse parti corporee, una coordinazione molto precisa, il momento in cui emerge il pensiero, l’emozione distrattiva è subito evidente, perché o si perde il passo, o non si riesce a capire come farlo. E’ bellissimo osservare come più si cerca di capire i passi da fare, più si perde tempo e non si fanno, mentre basta semplicemente non pensare e lasciarsi andare per andare in sincronia perfetta. Beh, alla fine si torna sempre allo stesso principio per cui il lucido abbandono, la fluidità e la flessibilità interiore sono sempre le basi fondamentali per un’efficace relazione con se stessi e con l’altro, le basi per la costruzione.
Si costruisce quando emerge il silenzio del fare.
E’ un silenzio particolare che mi fa venire in mente la frase corrispondenza tra pensiero e azione, perché è un momento di allineamento in cui il pensiero non è rumore ma autopoiesi che muove, e l’azione non è necessariamente fare qualcosa, o fare qualcosa d’importante, è fare, può essere il passare l’impregnante su una scala di legno, tagliare delle assi, essere immersi in quella danza di forme luminose nella grotta interiore, guardare una scena per noi dolorosa, che ci suscita rabbia o gelosia e trascendere quell’emozione passandoci letteralmente attraverso, dentro, come una freccia che passa attraverso un muro, come si dice possano fare i doppi energetici. Non so se l’immagine o il paragone sia efficace, ma dentro di me si svolge esattamente così: sento tutto il magma emotivo che si muove dentro di me, mi coinvolge il plesso, la pancia, mi sale come pressione sul viso, ma c’è qualcosa di me, una linea verticale che, pur attraversando velocissima quei sommovimenti interni, è immobile, inflessibile, fino a che mi porta fuori dalle briglie emozionali, pur non avendole fuggite, represse. Se non si supera quel muro, quella barriera, si rimane semplicemente all’interno dell’emozione (intendendo per interno tutte le diramazioni e le somatizzazioni collegate a quell’emozione, in realtà ovviamente non esiste l’interno e l’esterno), quella freccia si spezza e si sparpaglia in mille pensieri, proiezioni, congetture, dubbi, recriminazioni ecc, ecc, ecc.. Il bello è che noi abbiamo il potere di rendere consistente, concreto, materiale quel muro, o renderlo leggero, attraversabile!
La marzialità in questa fase, per me, significa non sfuggire da me stessa (ammesso che sia possibile farlo), accorgermi se mi sto disperdendo e correggere con l’azione, accettare di mettermi in gioco sempre di più sulle questioni che più mi toccano nel vivo: più il gioco si fa duro e più io devo farmi trovare pronta, potenziando il mio livello di lucido abbandono, la mia capacità di apertura, rendendo più flessibile e forte la mia coscienza e il mio corpo, fino ad essere libera di (…) e libera da (…) e poter finalmente dedicarmi alla non località e alla sua esplorazione consapevole.
Il proseguire la formazione seguendo il settore di speleologia e torrentismo coscienziale ha a che fare con questo impegno a scendere sempre di più, lì dove i percorsi esterni ed interni si fanno più pericolosi e suggestivi, dove è necessario aumentare intensamente il livello d’attenzione altrimenti si rischia di farsi davvero male: più ci si coinvolge, più si entra nelle viscere della terra e dell’emozione-istinto, ma le atmosfere della sospensione si fanno più vicine, più intense. Se si scelgono obiettivi arditi, ambiziosi, bisogna prima o poi assumersene le difficoltà e le responsabilità, anche questo è arte marziale interiore
Gaia Ruia
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